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CARLO VERCELLONE
Carlo Vercellone
[University of Paris-1]
Con la teoria smithiana
della crescita e la teoria ricardiana della distribuzione, i fondatori
dell’economia politica hanno tentato di rappresentare, in un modello teorico
relativamente semplice, la logica di funzionamento del capitalismo nata prima
della rivoluzione industriale. Oggi, nella transizione che ci porta dal
capitalismo industriale verso un’economia fondata sulla diffusione e sul ruolo
motore della conoscenza, dobbiamo forse percorrere di nuovo il processo
analitico dei fondatori dell’economia politica. Questo procedimento, che deve
collegare come in un tutto indissociabile il modo di produrre e il modo di
distribuire la ricchezza, fa emergere una problematica chiave: la questione
della legittimità e della fattibilità economica di un reddito
sociale garantito indipendente dal lavoro.
In questo articolo, ci
proponiamo di chiarire due aspetti essenziali del problema. Il primo riguarda
la messa in luce all’interno del dibattito attuale di due concezioni del reddito
garantito tra loro in opposizione[1] : quella neoliberista di un reddito
minimo di sussistenza condizionato da una parte, e quella di un reddito
garantito dignitoso e incondizionato che chiamiamo “reddito sociale
garantito” (RGS) dall’altra. Il secondo aspetto riguarda la controversia sui
fondamenti economici e il finanziamento del RSG. Si tratta di dimostrare che
questa riflessione deve essere rapportata alle trasformazioni della divisione
del lavoro e al modo di accumulazione che segnano la transizione verso quella
fase del capitalismo che chiamiamo capitalismo cognitivo. In questo
ragionamento, discuteremo di alcune questioni teoriche che riguardano la
mutazione delle nozioni stesse di ricchezza sociale e di lavoro produttivo per
giungere ad una definizione del RSG concepito come un reddito basato sulla
combinazione di un salario sociale e di una rendita collettiva.
Per chiarire il senso del
dibattito attuale sul reddito garantito, occorre innanzitutto definire i
termini della dicotomia tra due concezioni inconciliabili.
La
prima concezione presuppone la messa in atto di quello che abbiamo definito reddito
minimo di esistenza condizionato. Questo approccio deriva dalla tradizione
della teoria liberista secondo la quale la causa principale della
disoccupazione starebbe nelle rigidità del mercato del lavoro (per
esempio, Smic – Salario Minimo Interprofessionale di Crescita – minimi sociali,
indennità per i disoccupati) che impediscono ai salari di disporre di
una flessibilità compatibile con la piena occupazione. Pertanto
l’introduzione di un reddito minimo comporterebbe l’abrogazione dello Smic e
degli altri ammortizzatori sociali, responsabili della trappola
dell’inattività. In questa prospettiva, il reddito minimo diventa
uno strumento di de-socializzazione dell’economia e di ricostruzione di una
regolazione concorrenziale del mercato del lavoro.
Il principio di
condizionamento (che sottopone la concessione di un reddito minimo
complementare a un compenso in lavoro) è un’altra caratteristica
fondamentale della maggior parte delle proposte neoliberisti. Perciò la
proposta del reddito minimo di attività (RMA) si propone di
completare il reddito legato all’esercizio di un lavoro remunerato (nel settore
privato in un’attività di utilità collettiva fornita dallo Stato)
con un aiuto finanziario che permetterebbe di raggiungere il livello del
reddito minimo di sussistenza. Questa proposta s’iscrive nella linea del
modello di controllo sociale delle Poor Laws nella misura in cui mira
alla sostituzione delle istituzioni del welfare con una logica di workfare.
La concessione del RMA resta discrezionale e sottoposta de facto alla
verifica di una condizione rigida: la disponibilità del lavoratore ad
accettare l’impiego proposto, anche se questo lavoro è precario e
sotto-remunerato.
Questa logica è
anch’essa al centro delle proposte che si riferiscono alla formula dell’imposta
negativa cara a Milton Friedman. Precisiamo che, a livello tecnico, l’imposta
negativa potrebbe, in linea di principio, essere conciliabile con un reddito
minimo incondizionato e indipendente dal lavoro. Si tratterebbe di fissare una
soglia di povertà sulla base della quale sarebbe versata
un’indennità compensativa a tutte le persone che percepiscono un reddito
inferiore a questa soglia (al di là della quale avrebbe luogo il solito
prelievo fiscale). In realtà, le proposte che si ispirano a questa
tecnica prevedono quasi sempre che questa dotazione finanziaria sia fissata in
funzione del lavoro e che i disoccupati così detti “volontari” ne siano
esclusi: insomma, l’imposta negativa dovrebbe essere versata soltanto a coloro
che hanno già un lavoro e servire di complemento ad un reddito di
attività insufficiente.
Certo, questo
collegamento diretto tra diritto al reddito e obbligo di lavorare non è
sempre esplicitato. Tuttavia gli importi previsti per quest’indennità
sono così bassi e i compensi in termini di soppressione degli altri
minimi sociali così importanti che la logica dell’imposta negativa resta
immutata: rafforzare la costrizione al rapporto salariato e sovvenzionare lo
sviluppo dei working poor «permettendo il cumulo di un reddito sociale
di base insufficiente per vivere con un reddito da lavoro ugualmente
insufficiente» (Gorz 1997, p. 134).
In sintesi, il reddito
minimo di sussistenza è un dispositivo di regolazione della
dualizzazione crescente del mercato del lavoro grazie alla quale lo sviluppo delle
forme dette atipiche e precarie del lavoro potrebbe diventare, per interi
settori dell’economia, la nuova norma di referenza che presiede alle condizioni
di lavoro e di formazione dei salari. Sempre presentandosi come una misura di
reinserimento in favore degli esclusi della nuova economia, l’imposta
negativa è in realtà soltanto una nuova forma, più o meno
nascosta, di sovvenzione al lavoro. Si aggiungerebbe alla pluralità di
indennità e di esoneri sui contributi versati dagli imprenditori che
sono stati istituiti per favorire, grazie all’abbassamento del costo (diretto)
del lavoro, l’impiego dei lavoratori poco qualificati. Ciò
costituisce una socializzazione dei redditi, ma sotto la forma regressiva di
una socializzazione dei costi del lavoro che permette agli imprenditori di
versare un salario diretto inferiore alla soglia di povertà.
Per i difensori
neoliberisti dell’imposta negativa, questa misura dovrebbe per altro condurre
ad un abbassamento considerevole dei prelievi obbligatori dato che un trasferimento
unico, finanziato per vie fiscali, dovrebbe rimpiazzare poco a poco gli
ammortizzatori sociali attuali della previdenza sociale.
Tuttavia questo ragionamento non è privo di
contraddizioni, e l’accettazione delle proposte neo-liberiste potrebbe condurre
alla fine ad una crisi fiscale. In effetti l’istituzione a livello generale di
un reddito minimo concepito in questi termini, condurrebbe gli imprenditori a
selezionare la forza-lavoro impiegata sulla base dell’accettazione di un
salario inferiore al reddito di sussistenza. E’ allora molto probabile che
l’instaurazione di un reddito minimo di sussistenza condizionato si traduca in
un effetto di sostituzione tra i diversi componenti della forza lavoro
piuttosto che in un aumento dell’occupazione. Inoltre il salario diretto
versato dagli imprenditori potrebbe abbassarsi in modo proporzionale al
complemento di reddito assicurato dall’imposta negativa. Se questa logica
prevale, il costo del reddito minimo diverrebbe esorbitante, nonostante le
economie realizzate con la soppressione degli altri trasferimenti monetari e
dei servizi del welfare.
Tuttavia, è in
questa direzione che è stata orientata, a partire dalla legge
finanziaria del 2001, la politica dei redditi francese, adottando la proposta
di un’imposta negativa ribattezzata «Prime pour l’Emploi» (PPE)[2]. Questa misura, ripresa
dal governo Raffarin, consiste appunto nell’erogare un reddito aggiuntivo a
coloro che percepiscono bassi salari. Essa svolge tre funzioni caratteristiche
dell’imposta negativa secondo il punto di vista neo-liberista:
■ la PPE è infatti
condizionata, perché è riservata soltanto alle famiglie con
almeno un lavoratore salariato;
■ la PPE è un
incentivo all’impiego, o più precisamente ai working poor, in
quanto questo trasferimento dipende dal tempo di lavoro svolto in un anno. I
lavoratori salariati sono così incoraggiati ad accettare un gran numero
di lavori precari per cumulare le ore di lavoro, per raggiungere la quota
massima di PPE;
■ la PPE comporta di fatto
la soppressione dello Smic, proprio perché incentiva le forme di lavoro
atipico e precario.
Alla teoria neoliberista del
reddito minimo di sussistenza condizionato si oppone la proposta di un reddito
sociale garantito indipendente dall’impiego.
Secondo questo approccio,
il reddito garantito incondizionato rappresenta uno strumento di
ri-socializzazione dell’economia e di attenuazione del rapporto di costrizione
monetaria insito nel rapporto salariato. A livello teorico la disoccupazione e la
precarietà sono qui intese come il risultato della logica che
caratterizza lo statuto del salariato all’interno di un’economia monetaria
di produzione (nel senso di Keynes e di Marx).
Su questa base, la
riflessione sul reddito sociale garantito (RSG) parte da una delle conseguenze
più significative delle politiche che introducono la flessibilità
nel mercato del lavoro. Si tratta del modo in cui l’insicurezza economica e la
precarietà fanno riemergere con forza la natura primaria del rapporto
salariale: quella di una costrizione monetaria che fa del lavoro salariato la
condizione d’accesso alla moneta, cioè a un reddito dipendente dalle
anticipazioni dei capitalisti concernenti il volume della produzione e quindi
del lavoro impiegabile con profitto. E’ anche per questo che il discorso sul
RSG si inscrive in una riflessione più ampia e più complessa.
Riguarda l’elaborazione di un nuovo diritto al lavoro e di un sistema di
protezione sociale capaci di riconciliare sicurezza del reddito e mobilità
del lavoro e di favorire la mobilità scelta a discapito della
mobilità imposta legata alla precarietà. Perciò per i
difensori del RSG il suo importo dovrebbe essere idealmente fissato ad un
livello sufficientemente elevato per permettere a ognuno di avere una vita decente.
In ogni caso, deve essere almeno un « reddito sufficiente per preservare la
libertà dei lavoratori di accettare o di rifiutare le condizioni di
lavoro che gli sono proposte « (Passet 2000, p.257). Ne risulta anche che la
definizione del RSG non può essere data in termini puramente monetari.
Il diritto al reddito deve articolarsi in diritto all’accesso a un insieme di
servizi garantiti fuori mercato (diritto all’alloggio, alla sanità, alla
formazione, ecc.). Da questo punto di vista, il RSG presuppone il mantenimento
del sistema di garanzie legato alle istituzioni della previdenza sociale e ne
implica l’espansione.
Il reddito di base che
rappresenterebbe il RSG s’inscriverebbe in un modello di flessibilità
offensiva, assicurando la continuità del reddito malgrado la
discontinuità scelta o imposta dei rapporti di lavoro. Spingerebbe verso
l’alto la scala dei redditi d’attività favorendo il potere di
negoziazione dei salariati, e di conseguenza la modernizzazione delle relazioni
professionali e dall’organizzazione del lavoro. Quindi, la logica che presiede
all’istituzione di un RSG non comporterebbe né la soppressione del Smic,
né quella di altri ammortizzatori della previdenza sociale, salvo per i
trasferimenti assistenziali e condizionati, come ad esempio, in Francia il
Reddito minimo d’inserzione (RMI), che si trovano sotto questo reddito di base.
La proposta del RSG va spesso incontro
principalmente a due critiche: i) la sua presunta insostenibilità
finanziaria ii) l’illegittimità economica ed etica dell’affermazione di
un diritto al reddito che non troverebbe il suo corrispettivo in una
contribuzione lavorativa alla creazione di ricchezze.
In realtà, queste
due questioni, quella della fattibilità e quella della
legittimità del RSG, sono in gran parte legate e devono essere
confrontate con l’analisi delle trasformazioni del lavoro e del regime di
accumulazione nel capitalismo cognitivo.
Un’obiezione che viene
spesso rivolta al RSG è, in effetti, di non analizzare in modo
approffondito la problematica connessa al suo finanziamento.
Ne derivano due
conseguenze che riguardano la coerenza e/o la credibilità delle proposte
di RSG:
1. Sia l’importo del reddito di
cittadinanza è stimato ad un livello irrisorio (tra i 230 e i 300 euro
pro capite al mese), e, in ogni caso, incompatibile con l’idea di «un reddito
sufficiente per preservare la libertà dei lavoratori di accettare o di
rifiutare le condizioni di lavoro che gli sono proposte» (Passet 200, p. 272);
2. Sia l’importo minimo del
reddito garantito è stabilito ad un livello molto più alto
(generalmente ad un livello intermedio tra la soglia di povertà e il
smic – Salario Minimo Interprofessionale di Crescita). Ma, in tal caso, la
proposta di reddito di cittadinanza è criticata a causa del suo preteso
irrealismo (Coutrot e Husson 2001). Questa critica è basata quasi sempre
sull’affermazione secondo la quale il costo di finanziamento richiederebbe uno
sviluppo economicamente e politicamente non supportabile dai prelievi
obbligatori.
Per esempio, è così che Thomas Coutrot e
Michel Housson considerano irrealistiche le proposte di un reddito sociale
garantito avanzate da Renè Passet (7000 euro l’anno) o, a fortiori
da Andrè Gorz (7320 euro pro capite l’anno, cioè circa 610 euro
al mese) proprio perché il finanziamento sarebbe economicamente non
supportabile. Infatti dovrebbe aver luogo una redistribuzione radicale dei
redditi pari a 366 miliardi di euro (nell’ipotesi di un RSG pari a 7320 euro
l’anno), cioè il 30% del PIL – concludono Thomas Coutrot e Michel Husson
e rigettano sbrigativamente la proposta di RSG nel mondo buio delle utopie e
senza domani (Coutrot e Husson 2001, p. 66).
Certo, queste cifre fanno
impressione. Bisogna però notare che questo tipo di ragionamento che
conduce alla non fattibilità del RSG, risulta semplicistico. Si limita a
valutare il suo costo lordo moltiplicando l’importo del RSG per il numero di abitanti,
poi, una volta stabilito l’importo da finanziare, dichiara ipso facto,
il suo irrealismo facendo seguire la percentuale del PIL da una serie di punti
esclamativi.
Quest’argomentazione,
però, risulta errata per due ragioni, visto che da una parte sovrastima
il costo reale del RSG (facendo confusione tra costo netto e costo lordo) e,
dall’altra, evita ogni vera riflessione sulle risorse che possono permettere il
suo finanziamento.
Analizziamo qui sotto
queste questioni relative al costo reale ed al finanziamento, sviluppando
diverse considerazioni che contribuiscono a mostrare la fattibilità
finanziaria del RSG:
A. Il RSG è cumulabile con ogni altro tipo di reddito[3], il quale a partire da una certa
soglia é sottoposto all’imposta. In questo modo, il RSG, sempre mantenendo
il suo carattere incondizionato, avrebbe anche un carattere redistributivo, la
cui portata sarebbe più o meno importante in funzione delle
caratteristiche dei diversi sitemi fiscali. Insomma, il costo netto di
finanziamento del RSG deve dunque essere stimato tenendo conto del prelievo
fiscale effettuato tradizionalmente sull’insieme dei redditi delle famiglie,
del quale il RSG sarebbe una delle componenti. In altri termini, il RSG
può cumularsi senza massimale di risorse, ma è imponibile e
sarebbe in gran parte recuperato sui redditi elevati. La presa in
considerazione di questo effetto di soglia riduce proporzionalmente il costo
reale netto del finanziamento del RSG in una proporzione che sarebbe importante
stimare con precisione.
B. Altro punto importante: sia per ragioni di giustizia sociale che di
coerenza macroeconomica, l'instaurazione del RSG dovrebbe essere associata ad
una riforma del sistema fiscale che ne accentui fortemente il carattere
progressivo.
C. Importanti margini di manovra esistono per quello che riguarda la
tassazione dei redditi da capitale che in Europa in generale, e in Francia in
particolare, sono molto meno tassati che i redditi da lavoro.
D. Le economie derivanti dalla soppressione dei trasferimenti assistenziali
condizionati (i minima sociaux) ai quali si sostituirebbe il RSG
incondizionato, permetterebbero di coprire una parte non trascurabile dei costi
legati alla sua instaurazione.
E. A questa fonte di finanziamento bisogna aggiungere quella proveniente
dalla soppressione delle agevolazioni fiscali e degli esoneri dai contributi
sociali di cui beneficiano le imprese come incentivo all’impiego di manodopera
non qualificata, che, spesso, lungi dal favorire la creazioni di nuovi posti di
lavoro, si traducono in un semplice trasferimento di reddito dai salari ai
profitti[4].
F. In una prima tappa, il RSG potrebbe essere riservato alla popolazione
adulta situata tra i 18 anni e l’étà legale della pensione e solo
in un secondo tempo sarebbe progressivamente esteso all’insieme della
popolazione.
Riunendo l’insieme di
queste condizioni, il costo di finanziamento del RSG sarebbe considerevolmente
ridotto e non entrerebbe in concorrenza con il finanziamento di altre conquiste
essenziali del sistema di protezione sociale, come le pensioni, il diritto alla
salure, e, per esempio in Francia, le indennità di disoccupazione. Al
tempo stesso, l'instaurazione del RSG permetterebbe, su queste basi, une
distribuzione del reddito molto più egualitaria.
Su queste basi, in un
recente saggio abbiamo dimostrato, ad esempio, per la Francia la
fattibiltà finanziaria di un RSG incondizionato di un montante di 700
euro mensili (equivalenti alla métà del salario medio) versato
alla popolazione adulta tra i 18 anni e l’étà legale della
pensione (Monnier e Vercellone, 2005).
D’altronde, se il costo
di un reddito garantito universale versato all’insieme della popolazione
residente é certamente molto più elevato, due considerazioni
complementari devono essere prese in conto per analizzare la sua fattibilità.
In primo luogo, il costo
di finanziamento di un reddito garantito universale non dovrebbe essere stimato
sulla base di un RSG di livello identico per tutti gli individui, ma sarebbe
più ragionevole considerare importi diversi per due categorie di
persone: gli adulti, che percepirebbero il RSG nella sua integralità, e
i minorenni a carico dei genitori, che beneficerebbero di un’indennità
di un importo inferiore, che potremmo chiamare, per distinguerlo dal primo, di indennità
di esistenza[5]. In secondo luogo, e sarà
l’argomento delle sezioni successive di questo capitolo, la questione del
finanziamento e della legittimità del RSG implicano, in modo più
generale, un riesame approfondito della maniera di comprendere le nozioni stesse
di lavoro produttivo, di ricchezza e i suoi principali indicatori, mettendo in
evidenza la sfasatura tra le nuove norme di produzione del capitalismo
cognitivo e le norme di ripartizione ereditate dal capitalismo industriale.
E’ a queste condizioni che diventa possibile pensare il problema dei fondamenti
teorici e della fattibilità del RSG partendo da due principali poste in
gioco legate allo sviluppo del capitalismo cognitivo:
■ la prima riguarda la
transfomazione e l’estensione del concetto di lavoro produttivo nel quadro di
un’economia intensiva delle conoscenze, cioè basata sulla diffusione e
sul ruolo motore dei saperi;
■ la seconda concerne il
modo di concepire un processo di risocializzazione dell’economia e del capitale
in opposizione alla finanziarizzazione crescente del sistema economico e ad il
suo impatto sulle regole di formazione del reddito.
Una delle difficoltà maggiori che incontrano
numerosi difensori di un’allocazione universale o di un reddito di cittadinanza
deriva da un approccio puramente etico e redistributivo, incapace di fondare la
proposta di un RSG incondizionato su un’analisi delle trasformazioni dei
meccanismi di creazione della ricchezza.
E’ in particolare il caso
delle interpretazioni in termini di “fine del lavoro” alla Rifkin, sulla quale
in una certa misura si basa anche la proposta di allocazione universale di Van
Parijs.
Secondo le tesi della «fine
del lavoro», la disoccupazione tecnologica avrebbe un carattere strutturale. In
questa logica, la giustificazione fondamentale del reddito garantito starebbe
nel fatto che il posto di lavoro diventa una merce rara e, al tempo stesso, il
lavoro perde il suo ruolo centrale nel processo di creazione della ricchezza.
Alla differenza delle
interpretazioni “tecnologiche” sulla fine del lavoro, la crisi attuale della
forma lavoro-impiego salariato é, a nostro avviso, lontano dal
significare una crisi del lavoro come fonte della produzione di valore e di
riccheza. La trasformazione consiste piuttosto in un cambiamento paradigmatico
della nozione di lavoro produttivo, dove il sapere sociale generale si
presenta come forza produttiva immediata. Questa trasformazione, che ha
al suo centro il ruolo svolto dalla scolarizzazione di massa nell’emergenza di
un’ intellettualità diffusa, può essere interpretata a
partire dalla tendenza che Marx definisce nei Grundrisse con la nozione
del General Intellect. Si tratta dell’emergenza di una nuova figura
egemonica del lavoro, segnata dal suo carattere sempre più intellettuale
e immateriale. La sua origine rimanda ad una dimensione essenziale dei
movimenti sociali che, durante gli anni Sessanta e Settanta, hanno rimesso in
discussione la legittimità del modello fordista: la rivendicazione del
diritto al sapere e della sua indipendenza nei confronti delle esigenze
dell’accumulazione del capitale. Ne ha risultato un prolungamento formidabile
degli anni di studio e, in generale, del tempo di vita dedicato alla formazione
da parte di ogni individuo. Pertanto, i conflitti sociali della fine degli anni
Sessanta e Settanta si sono sedimentati nelle nuove caratteristiche
“intellettuali” del lavoro e in quella che potremmo qualificare di nuova
preponderanza dei saperi del “lavoro vivo” sul sapere incorporato nel capitale
fisso (e nell’organizzazione d’impresa). Da questo punto di vista è
altamente significativo il seguente fatto stilizzato: a partire dal 1973, lo
stock di capitale immateriale (educazione, formazione, ricerca e sviluppo,
sanità) pareggia lo stock di capitale tangibile, poi lo sorpassa per
diventare oggi largamente dominante.
Siamo allora al punto di
partenza di un’economia fondata sul processo di produzione, trattamento e
diffusione delle conoscenze dove la variabile essenziale della crescita e della
competitività strutturale di un territorio diventa ormai la
capacità di mobilitare in modo cooperativo il potenziale di lavoro
intellettuale presente nella società. Ne deriva una messa in discussione
del modello smithiano della divisione tecnica e sociale del lavoro nata dalla
prima rivoluzione industriale e il passaggio verso una nuova divisione del
lavoro che poggia su dei principi cognitivi. Questa tendenza è
ravvisabile in tre trasformazioni principali:
■ la norma industriale del lavoro
astratto, intercambiabile e facilmente misurabile con l’orologio e il
cronometro, é resa sempre più obsoleta in seguito allo sviluppo
dell’economia fondata sul sapere e sulle competenze non codificabili;
■ il tempo di lavoro
immediato dedicato alla produzione non é più che una frazione, e
non necessariamente la più importante, del tempo sociale di produzione;
■ i confini tradizionali
tra lavoro e non lavoro si attenuano e si rompe ogni rapporto di
proporzionalità tra remunerazione e lavoro individuale.
Queste metamorfosi fanno
sì che l’origine della ricchezza delle nazioni si sposti oggi sempre
più a monte dell’attività delle imprese. E sempre più a
monte della sfera del “lavoro salariato e dell’universo mercantile”, nella
società, e in particolare nel sistema di formazione e di ricerca, dove
si trova la chiave della produttività e dello sviluppo della ricchezza
sociale.
E’ possibile affermare
che il deterioramento delle condizioni di remunerazione e di impiego che
caratterizza il postfordismo, non corrisponde per niente alle esigenze di
un’efficacia economica obiettiva, che le rigidità del mercato del lavoro
avrebbero ostacolato. La de-socializzazione dell’economia appare
piuttosto come la condizione della messa al lavoro di una manodopera che non
può più essere sottomessa alla disciplina d’impresa sulla base di
una razionalità tecnica obiettiva incorporata nel capitale fisso e
nell’organizzazione del lavoro.
E’ anche in seguito a
questa nuova configurazione del rapporto (conflittuale) sapere/potere che si
può capire perché, nel nuovo regime di accumulazione,
finanziarizzazione ed economia della conoscenza sono associati, dal punto di
vista del modo di regolazione, con un’insicurezza crescente della condizione
dei salariati. La flessibilità, nelle sue diverse forme, ha
distrutto il sistema di sicurezza del posto di lavoro che era stato alla base
del compromesso fordista. Meglio, nel tempo del capitalismo cognitivo,
povertà e impiego non sono più degli statuti sociali antinomici,
all’insegna di una logica che può soltanto frenare le forze vive del
sapere sociale produttive di ricchezza.
La questione teorica che
si pone consiste allora nel sapere se, e a quali condizioni, il reddito
garantito potrebbe caratterizzarsi come uno strumento di attenuazione
dell’asimmetria monetaria fondamentale che struttura il capitalismo
determinando la separazione tra due classi di individui: da una parte coloro
che hanno il potere di creare la moneta per trasformarla in mezzo di finanziamento
o di avere accesso alla moneta sotto forma di rendita, cioè di un
reddito indipendente dal lavoro ; dall’altra coloro che hanno accesso alla
moneta soltanto vendendo la propria forza lavoro.
La problematica legata all’approccio del RSG si sviluppa su due linee di
ricerca:
■ La prima consiste in una
riflessione su una possibile riforma monetaria. Avrebbe come obiettivo, in
termini keynesiani, una distribuzione sociale dei redditi maggiormente
indipendente dalle anticipazioni degli imprenditori che determinano il volume
della produzione e dell’occupazione. Questa riforma monetaria permetterebbe di
ricostruire a livello sociale un nesso macroeconomico coerente tra la crescita
della massa salariale e gli incrementi della produttività oggi sempre meno
redistribuiti perché sottratti dai profitti e le rendite finanziarie.
Restituirebbe in questo modo alla forza di lavoro sociale il valore aggiunto
che risulta dai meccanismi sempre più collettivi all’origine dei
benefici di produttività, che oggi paradossalmente contrastano la piena
occupazione. Da questa riforma deriverebbero dei cambiamenti fondamentali nella
regolazione macroeconomica. La formula kaleckiana secondo la quale «i
lavoratori salariati spendono quello che guadagnano, i capitalisti guadagnano
quello che spendono» sarebbe profondamente indebolita con l’indebolimento
dell’asimmetria tra le classi sociali nell’accesso alla moneta. Possiamo
immaginare che ci si avvicinerebbe ad una nuova formula secondo la quale
è la società nel suo insieme che «guadagnerebbe quello che
spende».
■ La seconda linea di
ricerca conduce a un’analisi alternativa dell’ «origine della ricchezza delle
nazioni» e, pertanto, dei meccanismi su cui può basarsi sia la
legittimità socioeconomica che il finanziamento del RSG. Questa riflessione
implica una rilettura dei criteri attuali su cui si basa la contabilità
nazionale, prendendo in considerazione le trasformazioni provocate dallo
sviluppo dell’economia della conoscenza. Ne consegue un cambiamento radicale e
un allargamento del concetto di lavoro produttivo che integri il riconoscimento
del ruolo motore del sapere nella creazione della ricchezza e la remunerazione
di diverse forme di attività che la teoria convenzionale e la
contabilità nazionale si ostinano a considerare come non lavoro.
In questo contributo
proponiamo di sviluppare alcuni elementi inerenti a queste linee di ricerca
proponendo una caratterizzazione del RSG concependolo come un reddito primario
fondato sull’associazione di un salario sociale e di una rendita
collettiva; una precisazione che conduce anche ad identificare alcune delle
fonti di finanziamento che corrispondono a queste due componenti costitutive
del RSG (salario sociale e rendita collettiva).
La
prima componente del RSG consiste dunque in un salario sociale fondato sul
riconoscimento del carattere immediatamente produttivo dell’insieme della forza
lavoro. Il suo fondamento deve essere collegato alla mutazione dei meccanismi
sociali di ottenimento degli incrementi di produttività e
dell’innovazione tecnologica che vanno insieme al contenuto sempre più
immateriale e intellettuale della produzione.
Questo tipo di trasformazione
rimette in discussione i confini che, nella teoria economica convenzionale,
separano l’universo produttivo della sfera di mercato dall’universo
improduttivo della sfera non di mercato. Il ruolo sempre più centrale
del sapere così come la socialità crescente dei benefici di
produttività e dell’innovazione tecnologica rendono superate le
categorie utilizzate di solito per caratterizzare lo status (attivo o inattivo,
produttivo o improduttivo) della forza lavoro. Queste evoluzioni rendono
obsoleta la misura della durata effettiva della giornata di lavoro dedicato
alla produzione e tempo libero e/o di formazione. La cooperazione produttiva si
sviluppa sempre di più a monte dell’impresa e dunque fuori dal lavoro
salariato. Il sapere e il non-lavoro in generale diventano in questo contesto
la fonte di esternalità e di un progresso tecnico esogeno alle imprese.
Questa ipotesi di lettura, che si
basa ormai su un’abbondante letteratura, implica la rimessa in discussione di
tre pilastri della teoria del valore e della distribuzione:
■ la teoria del valore
fondata sull’esistenza di un prezzo di mercato. La sua rimessa in discussione
deriva da due ragioni principali: dall’incapacità di una teoria di
mercato del valore a tener conto del ruolo produttivo della sfera non di
mercato; dall’inadeguatezza del sistema dei prezzi a spiegare la creazione del
valore aggiunto derivante dalle esternalità legate al sapere e alla
cooperazione sociale del lavoro che si sviluppa al di fuori dell’impresa e
della sfera di mercato;
■ la teoria del valore secondo
la quale il tempo di lavoro immediato dedicato direttamente a
un’attività di produzione è la fonte produttiva principale del
lavoro umano, la sua misura permette di stabilire un rapporto proporzionale tra
remunerazione e lavoro individuale;
■ la teoria della
distribuzione secondo la quale ogni fattore di produzione può essere
remunerato secondo il suo contributo al prodotto totale: nella misura in cui
l’organizzazione sociale della produzione si presenta sempre di più
(come nell’ipotesi marxiana del General Intellect) sotto la forma di un
sistema integrato, caratterizzato da un’interdipendenza generale, la
valutazione della produttività di ogni fattore produttivo, considerata
separatamente e calcolata con il metodo marginale, perde ogni pertinenza (Passet
1992, 2000).
Insomma,
continuare a riferirsi al concetto tradizionale del lavoro produttivo
corrisponderebbe oggi allo stesso anacronismo che avrebbe indotto, per esempio,
dopo la prima rivoluzione industriale, a mantenere le antiche categorie della
scuola fisiocratica, che considerava produttivo il solo lavoro
nell’agricoltura. Il mantenimento di queste categorie avrebbe significato che
il lavoro dei salariati nell’industria manifatturiera era un lavoro
improduttivo. Dal momento che la cooperazione sociale precede e supera il tempo
di lavoro immediato dedicato alla produzione, si può formulare l’ipotesi
secondo la quale il lavoro nel capitalismo cognitivo è sempre anche,
almeno in una certa proporzione, lavoro sotterraneo, facente parte di un’economia
non di mercato forzata. Malgrado il suo contributo alla creazione di
ricchezza, questo lavoro sociale non è remunerato e il valore di questa
produzione è considerato nullo, perché non appartiene alla sfera
monetaria dello scambio commerciale e del rapporto salariale o sfugge ai suoi
criteri di misura. Precisiamo che qui l’espressione lavoro-economia sotterranea
non deve essere confusa con la sfera tradizionale dell’economia informale di
mercato. Intendiamo una dimensione produttiva diversa e molto più vasta.
Il lavoro sotterraneo è, in primo luogo, la vita non retribuita,
cioè quella parte dell’attività umana che, anche partecipando a
pieno titolo alla produzione di ricchezza, non è contabilizzata come
forza creatrice di valore.
Notiamo anche che questa
analisi risponde da sola alle critiche « etiche » del diritto a un
reddito garantito indipendente dall’occupazione, costruite sulla salvaguardia
del legame reddito-lavoro. In effetti la contropartita in lavoro esiste
già. E’ invece la contropartita in reddito che manca.
La legittimazione socio
economica e il finanziamento del RSG potrebbero così fondarsi in parte
sulla presa in considerazione e sulla remunerazione di questa dinamica
economica sotterranea finora non riconosciuta.
In questa prospettiva, è
possibile intraprendere due vie di ricerca complementari:
■ la prima consiste nella
valutazione dell’impatto virtuale di quella parte del lavoro sociale che
risulta nascosta nel calcolo del PIL, per mezzo, ad esempio di un calcolo in
termini di prezzo e/o di salari fittizi, delle economie non mercantili (non
rilevate). Questa riflessione permetterebbe di riconoscere il ruolo cruciale
delle attività di produzione e di scambio non commerciali e/o fondate su
un lavoro sociale non riconosciuto, perché il suo statuto non prevede un
contratto di locazione dei servizi remunerato secondo le norme del rapporto
salariale. In quest’ottica, è importante prendere in considerazione
l’evoluzione incessante delle diverse componenti appartenenti alla sfera
dell’economia non di mercato. In particolare, il contributo alla creazione
della ricchezza sociale, di questa sfera dell’economia nascosta, appare di
un’importanza crescente sotto l’impulso di due fattori:
(a) lo sviluppo delle forme
associative come momento di ri-socializzazione dell’economia e di espansione
dei servizi collettivi;
(b) il ruolo crescente che la
diffusione del sapere gioca nello sviluppo delle forze produttive deriva
dall’espansione formidabile della sfera non di mercato. Questa espansione
è legata allo sgretolamento dei confini tradizionali tra tempo libero e
tempo di lavoro e allo sviluppo delle reti di cooperazione produttiva e di
scambio di conoscenza al di fuori del mercato. L’impatto dell’economia non di
mercato sul calcolo del PIL si alzerebbe senza dubbi in modo impressionante se,
alla maniera del lavoro domestico, si provasse, per esempio, a misurarne il valore
con dei salari fittizi riferiti al lavoro di formazione e di ricerca non
remunerata.
Notiamo che, dal punto di vista della
problematica del RSG, questa linea di ricerca presenta un doppio interesse
teorico ed empirico:
■ permette di portare
avanti la riflessione sul carattere ristretto dei criteri attuali del calcolo
del PIL, dimostrando l’inadeguatezza di una concezione che fa della forma del
lavoro-impiego salariato e/o commerciale l’unica forma di lavoro produttiva e
degna di essere remunerata. L’integrazione e il riconoscimento “ufficiale”
delle economie non mercantili nella valutazione del PIL potrebbero così
essere un fattore di legittimità sociale del RSG. Precisiamo anche che,
lontano dal costituire un fattore di normalizzazione, il RSG sarebbe in tal
modo un bastione essenziale in grado di preservare l’autonomia della sfera
delle attività non mercantili dal processo di colonizzazione del
mercato.
■ La seconda via di ricerca
potrebbe basarsi sull’elaborazione di indicatori capaci di valutare meglio le
esternalità positive che l’economia non di mercato produce per
l’economia di mercato. Queste esternalità sono legate in particolare al
ruolo del sapere e al carattere non esclusivo, non rivale e cumulativo del bene
conoscenza che spiega la natura sempre più collettiva degli incrementi
di produttività e dell’innovazione.
La seconda componete del
RSG corrisponde all’instaurazione di una rendita sociale e/o di un dividendo
collettivo[6]. Il suo fondamento si trova nel
riconoscimento che la creazione attuale di ricchezza risulta dall’interazione tra
il lavoro presente e la ricchezza collettiva (risorse naturali, beni materiali
e immateriali) lasciata in eredità dalle generazioni precedenti[7].
Un aspetto fondamentale
del dibattito sul reddito garantito corrisponde, in realtà, alla sua
natura stessa, paragonata a quella di un reddito legato a un patrimonio
immobiliare o alla detenzione di un capitale finanziario.
Per tutta una classe di
agenti, la costrizione monetaria che collega il reddito all’occupazione non
esiste o è considerevolmente attenuata dalla detenzione di titoli di
credito e di proprietà : per questi individui il lavoro non
è un obbligo ma corrisponde invece a una scelta libera. Questa
osservazione è importante per evidenziare la contraddizione logica nella
quale cadono alcuni approcci che si oppongono all’idea di un reddito garantito
invocando delle considerazioni morali o economiche. La scissione del reddito
dal lavoro salariato sarebbe, in realtà, soltanto l’allargamento di un
diritto oggi limitato a una categoria di popolazione privilegiata (i rentier);
la conseguenza di questo allargamento non sarebbe tanto di provocare una fuga
massiccia dal lavoro in generale ma di facilitare la ricerca e la costruzione
di nuove forme di lavoro e di attività liberamente scelte. Una riforma
che porti all’istituzione di una rendita sociale collettiva sarebbe, peraltro,
una via essenziale per costruire un bastione contro l’attuale logica di un
regime di accumulazione dominato dal potere della finanza e contro la pressione
che i mercati globalizzati esercitano sulle istituzioni del welfare state
conquistate dai movimenti operai nel corso degli anni.
La proposta di una
rendita sociale collettiva sarebbe d’altronde coerente con uno dei principali
desideri espressi da Keynes nelle Note conclusive sulla filosofia
sociale verso la quale la teoria generale potrebbe condurre (Keynes 1936,
trad. it. 1991) e nelle Prospettive economiche per i nostri nipoti
(Keynes 1930, trad. it. 1991). In questi testi, Keynes, estrapolando la
dinamica di lungo periodo della produttività e dell’accumulazione del
capitale, sviluppa la sua analisi in un orizzonte collocato oltre la Teoria
Generale. In questo processo identifica alcuni obiettivi chiave della
mutazione attuale del capitalismo legati alla crisi del modello fordista-keynesiano
dei Trenta Gloriosi.
Così, secondo
l’autore della General Theory, il problema prinipale al quale la
società doveva essere confontata «negli anni a venire» sarebbe «la
disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta
alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo
più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la
stessa manodopera» (Keynes 1930, trad. it. 1991, pp. 61-62) [8]. Ma la crescita della
«disoccupazione tecnologica», continua Keynes, sarebbe soltanto l’effetto
perverso di un «periodo passeggero di adattamento» perché «in
prospettiva, infatti, ciò significa che l’umanità sta procedendo
alla soluzione del suo problema economico» (p. 62). Ne consegue la
necessità di passare da una regolazione dell’economia fondata sul
principio di scarsità a una regolazione fondata sul principio di
abbondanza. A questo proposito, bisogna ricordare una tendenza essenziale
individuata da Keynes durante gli anni Trenta. Corrisponde al movimento
storico dell’accumulazione che avrebbe condotto a privare il capitale del
suo valore di scarsità nel corso di una o due generazioni» (p. 114).
La realizzazione di questa tendenza, secondo Keynes, avrebbe implicato l'eutanasia
del rentier e, in seguito, la scomparsa «del potere oppressivo e
cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del
capitale» (p. 112). Senza tradire lo spirito dell’economista di Cambridge,
si può affermare che questa sua riflessione non è in prospettiva
distante dalla nostra proposta di una riforma che sostituirebbe alla rendita
conferita al capitale “dalla sua rarità”, una rendita collettiva o
dividendo sociale proprio di una società di abbondanza nella quale «sempre
più vaste diventeranno le classi sociali e i gruppi di persone che in
pratica non conoscono i problemi della necessità economica» (p. 67).
L’instaurazione di una
rendita sociale collettiva sarebbe peraltro coerente con la realizzazione di
uno dei desideri di Keynes : quello di conciliare la socializzazione dell’economia
con un individualismo inteso come allargamento «del campo aperto per
l’esercizio delle scelte personali [e come] salvaguardia della varietà
della vita, che risiede precisamente nell’estensione del campo di scelta
personale» (p. 117). Di fatto, permettendo la discontinuità e il
"nomadismo" tra diverse attività, questa rendita sociale
collettiva si presenterebbe come una forma di reddito adeguato a questa nuova
formula sociale di esistenza che Keynes considerava profeticamente come « lo
strumento più potente per migliorare il futuro ». Come precisa
tra l’altro nelle «Prospettive economiche per i nostri nipoti», l’individuo si
realizzerebbe in una società dove il tempo dedicato al lavoro
(dipendente) sarebbe ridotto a una parte esigua del tempo di vita («turni di
tre ore lavorative e settimana lavorativa di quindici ore» (p. 65). Questa
nuova società, secondo Keynes, avrebbe permesso di allargare all’insieme
della popolazione questo «dono», costituito da un «reddito
indipendente» di cui i soli beneficiari, a quell’epoca, erano i ricchi
rentiers che tuttavia, agli occhi di Keynes, rappresentavano «per
così dire, la nostra avanguardia, coloro che esplorano per noi la terra
promessa e che vi piantano le tende» (p. 64). E’ Keynes a precisare: «Ho
la certezza che con un po’ più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo
generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi
di oggi e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso che non ha
nulla a che fare con il loro» (pp. 64-65).
Diverse misure possono
contribuire all’instaurazione di una rendita sociale collettiva. Possono essere
concepite in modo alternativo o complementare, seguendo il progetto societario
scelto e la risposta che la società riuscirà a dare all’attuale crisi
del « capitalismo patrimoniale »:
■ l’istituzione di una Tobin
tax sui movimenti speculativi di capitale costituirebbe uno strumento di
finanziamento efficace, a corto e medio termine, e facilmente applicabile, da un
punto di vista tecnico. La proposta elaborata da James Tobin nel 1978 consiste
nel prelievo di un’imposta dello 0,5% sugli scambi monetari mondiali. Il
progetto di una Tobin tax, le cui entrate sarebbero destinate
alla costituzione di un fondo speciale per il RSG, potrebbe costituire uno
degli aspetti rilevanti per la costruzione di un’Europa sociale. A livello
europeo, questa riforma potrebbe essere una prima tappa verso una dissociazione
del RSG dal riferimento restrittivo allo Stato-nazione per l’allargamento di
questo diritto di cittadinanza a livello mondiale;
■ gli effetti di una Tobin
tax sui movimenti speculativi delle valute, potrebbero inoltre essere
rafforzati dall’istituzione di una «Keynes tax» sulle transazioni
borsistiche. L’associazione di queste due tasse permetterebbe di recuperare una
parte dei profitti della speculazione e di finanziare l’instaurazione di un RSG
sempre restituendo al potere politico una parte della sua capacità di
regolazione dei mercati finanziari. Di più, ne conseguirebbe una
diminuzione della liquidità degli investimenti che costringerebbe i
detentori di fondi a essere più attenti alle prospettive di lungo
termine, cioè, nei termini di Keynes, di attenuare « il predominio
della speculazione sull’impresa»[9].
■ In una prospettiva
più radicale di trasformazione dei rapporti sociali, il finanziamento di
un reddito garantito come l’istituzione di una rendita sociale collettiva
potrebbe ispirarsi alla proposta di dividendo sociale formulata da Oskar Lange
negli anni Trenta (Lange 1936, 1937). Quest’autore suggeriva un principio
originale di ri-socializzazione dell’economia a partire dalla proprietà
dei mezzi sociali di produzione, alternativo all’ottica socialista della
nazional-izzazione.
Per
parafrasare Oskar Lange: il capitale ed il progresso della produttività
del lavoro sono un prodotto della cooperazione sociale. Sono dunque la
proprietà di tutti e giustificano a questo titolo il diritto per ognuno
dei membri della collettività a un dividendo sociale, che Lange
qualifica come la condizione istituzionale del socialismo.
In sintesi, la
distribuzione di una rendita e/o di un dividendo collettivo può essere
giustificata a partire dal riconoscimento del diritto, per ogni cittadino, a
una quota sulla produzione sociale, in virtù di due considerazioni
principali:
■ Il capitale fisso sociale
deriva da un lavoro sociale passato. Costituisce a questo titolo
un’eredità collettiva, dunque non c’è niente che legittimi la sua
appropriazione e la sua valorizzazione su base individuale e/o privata;
■ La contribuzione
produttiva di ogni membro della società deriva, al tempo stesso, dalla
sua attività individuale e dalla sua interazione con
quest’eredità collettiva (materiale e immateriale) (Bresson 1993)
lasciata in eredità dalle generazioni precedenti. Questo patrimonio,
spiegando le differenze di produttività esistenti tra un territorio e
l’altro, una nazione e l’altre, costituisce una rendita sociale. Di fatto,
ancora una volta, ogni legge di proporzionalità tra remunerazione e
lavoro individuale è spezzata e, nella produzione sociale, esiste sempre
una quota di cui nessuno può richiedere la proprietà. Appartiene
alla società nel suo insieme e deve dunque essere ripartita sulla
totalità della collettività.
Infine, la proposta di RSG,
definita come l’associazione di un salario sociale e di una rendita collettiva,
trova il suo fondamento economico nelle mutazioni del concetto di lavoro
produttivo e del modo di accumulazione che vanno insieme allo sviluppo del capitalismo
cognitivo.
D’altra parte, in seguito
all’avvento di un’economia fondata sulla diffusione e il ruolo motore del
sapere, il lavoro intellettuale diventa il fattore strategico e il tempo di
lavoro diretto smette di essere un’unità di misura economicamente
significativa. Questa trasformazione confonde i confini tradizionali tra lavoro
e non-lavoro, lavoro produttivo e improduttivo, con la quale le teorie
economiche e il sistema fordista di contabilità nazionale hanno tentato
di rendere conto dei meccanismi di formazione e di ripartizione della
ricchezza. Il RSG sarebbe, da questo punto di vista, soltanto il compenso in
reddito del carattere sempre più sociale del lavoro sul quale si basano
la dinamica dei benefici della produttività e dell’innovazione.
Da un’altra parte, la
crescita in potenza del capitalismo finanziario erode i confini tradizionali
tra rendita e profitti mentre impone con forza il ritorno di una logica di
regolazione concorrenziale (nel senso della scuola francese della regolazione).
Quindi il RSG potrebbe essere una delle proposte in grado di permettere alla
società di combinare la volontà d’imbrigliare il potere della
finanza e quella di arrivare a una ri-socializzazione dell’economia.
L’introduzione di un RSG
sostanziale, comme abbiamo visto, potrebbe basarsi su più fonti di
finanziamento e la sua istituzione, lungi dall’entrare in contraddizione con il
sistema di diritti e garanzie della previdenza sociale, costituirebbe un
elemento di rafforzamento e di uscita dall’alto dalla crisi del welfare
state. Il problema della sua “fattibilità” non è di tipo
“economico”, cioè legato al carattere limitato delle risorse. Dipende
essenzialmente da una scelta di società.
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Ends
[1] Questa distinzione fra due posizioni opposte permette ugualmente di reperire e di classificare differenti proposte intermedie. Questo non è lo scopo di questo contributo. Per un’analisi critica della letteratura si rimanda a Palermo 1994, Dieuaide e Vercellone 1999.
[2] La PPE si ispira in grand parte ai modelli della Earned income tax credit (EITC) creata negli Stati Uniti nel 1975 e modificata in seguto più volte e del Working families tax credit (WFTC) britannico creato nel1999. Entrambe queste misure, come la PPE, sono infatti destinate alle famiglie con redditi molto bassi e il loro beneficio é sottomesso a un principio di condizionalità forte che si esprima in una duplice condizione di reddito e d’esercizio di un’attività professionale.
[3] Ivi compreso in Francia ad esempio le indennità di disoccupazione
[4]Senza dimenticare che le economie derivanti dall’instaurazione del RSG andrebbero ad interessare anche la gestione dello Stato previdenziale, costituendo un’altra risorsa non trascurabile per il finanziamento. Queste derivano – nel caso francese- dalla soppressione dei numerosi costi per il controllo, e per la documentazione necessaria alla concessione del RMI (Reddito Minimo d’Inserimento) e degli altri minimi sociali.
[5]Questa allocazione o reddito di esistenza potrebbe corrispondere alla seconda componente del RSG che, nel prosieguo di quest’articolo, chiamiano « rendita collettiva ».
[6] Questo corrisponde a ciò che alcuni economisti, come Yoland Bresson e Philippe Van Parijs, considerano, ragionando in termini diversi, come il fondamento esclusivo di un reddito garantito qualificato in questo caso come reddito di esistenza.
[7] Utilizzando la terminologia di Karl Marx, la questione che qui si pone è quella dei diritti di proprietà (e dunque a un reddito) fondati sull’accumulazione del lavoro passato.
[8] Notiamo anche che Keynes per il concetto di « lavoro umano » intende qui essenzialmente lavoro, cioè il lavoro manuale di esecuzione, e non la free activity, prerogativa delle attività scientifiche ed artistiche, rese possibili dall’automazione del lavoro grazie alla liberazione del« tempo libero. Seguendo questo punto di vista, sebbene l’analisi di Keynes sia su questo punto meno esplicita e articolata, il suo approccio potrebbe essere ricondotto alla distinzione fra Time of labour e Disposable time che Marx sviluppa nel Libro IV del Capitale (Marx 1905, trad. fr. 1978, pp. 300-302), nel suo commento su l’affermazione di un socialista ricardiano, Thomas Hodgskin, secondo la quale « Una nazione è veramente ricca quando si lavora 6 ore invece di 12. Wealth is disposable time, and nothing more ». Il progetto di società (e di superamento del capitalismo) affrontato da Keynes nelle « Prospettive economiche per i nostri nipoti » presenta anche numerose analogie con l’analisi che Marx, nei Grundrisse, effettua sulla tendenza verso il General Intellect (o Intelletto generale), allorquando afferma che « del resto lo stesso tempo di lavoro immediato non possa rimanere in astratta antitesi al tempo libero – come si presenta dal punto di vista dell’economia borghese – si intende da sé » (Grundrisse, Il Capitolo del capitale, VII, 40, p. 723, ED. Einaudi 1977). Infatti, « il tempo libero – che è sia tempo di ozio che tempo per attività superiori – ha trasformato naturalmente il suo possessore in un soggetto diverso, ed è in questa veste di soggetto diverso che egli entra poi anche nel processo di produzione immediato.» (ibidem, p. 724)
[9] Più precisamente Keynes avanza l’ipotesi di una tassa piuttosto pesante in grado di rendere le operazioni di investimento quasi « definitive ed irrevocabili ». Ma lo stesso Keynes sottolinea l’inconveniente di una tassa eccessivamente pesante : il rischio di favorire una preferenza crescente per la liquidità che condizioni gli individui a tesaurizzare e a non spendere più moneta senza avere in contropartita un tasso di interesse molto elevato.