Sapere e lavoro nel capitalismo cognitivo: l' impasse
dell'economia politica
by Antonella Corsani
Una prima esplicitazione dell'ipotesi del
capitalismo cognitivo
Se durante il periodo fordista l'innovazione
costituiva una eccezione, nel postfordismo diviene la regola alla quale tutte
le imprese devono piegarsi per poter far fronte alla concorrenza globale
(Paulré, 2000). Il passaggio da un regime industriale di "ripetizione"
a un regime di "innovazione permanente" giustificherebbe allora una
nuova stagione della teoria economica.
Da
una decina d'anni ormai, i discorsi convergono, aldilà delle divergence
teoriche, su un punto: l'emergenza di una economia della conoscenza. Che si
tratti delle teorie della crescita o delle teorie del cambiamento tecnico e
dell'innovazione, la teoria economica sottolinea il ruolo centrale della
conoscenza, del sapere, in quanto forza produttiva, in quanto fattore di
produzione fondamentale nelle economie contemporanee. Possiamo considerare
questa centralità una novità della storia? Comme l'osserva a giusto titolo Enzo
Rullani, non si tratta certamente di una novità in se e per se: il capitalismo
industriale è stato prima di tutto sviluppo della tecnologia in quanto
applicazione delle conoscenze scientifiche alla produzione. In che cosa riposa
dunque la novità che porta alla scoperta, da parte dell'economia politica,
dell'importanza della conoscenza? Rullani considera che la novità fondamentale
riposa nel fatto che oggi la conoscenza non è piu incorporata, né nel lavoro,
né nelle macchine (cosa che si potrebbe tradurre con l'idea di un progresso
autonomo), né nell'organizzazione (il fattore X di Liebenstein). Ma questa
non-incorporazione prende un senso particolare, secondo Rullani, all'interno di
una analisi della rottura paradigmatica che costituiscono le NTIC e piu
particolarmente l'informatica in rete.
Pur
iscrivendomi in gran parte nella
continuità del ragionamento di Rullani, la mia ipotesi riposa sull'idea che la
novità nella storia del capitalismo non riposa nella mutazione tecnologica, piu
precisamente intendo dire che questa novità non puo essere compresa su delle
basi strettamente tecnologiche. Se è pur vero che le NTIC costituiscono una
vera rottura paradigmatica (Jollivet,
2001) e contribuiscono a modificare in maniera radicale i luoghi e i tempi
dell'attività creatrice, esse giocano un ruolo amplificatore dei processi di
trasformazione delle relazioni tra sfera della produzione di conoscenze e
accumulazione del capitale piuttosto che esserne la causa prima, al limite esse
ne costituiscono un co-prodotto. Aldilà del dibattito sul determinismo
tecnologico e del suo rigetto critico, se è vero che la digitalizzazione ha
permesso la circolazione delle conoscenze (scientifiche, tecniche, culturali e
artistiche) scorporate da qualsiasi dispositivo materiale (macchine e uomini) e
aldilà della materialità delle reti di macchine e di uomini che le veicolano,
il senso di questa "non - incorporazione" supera gli aspetti
strettamente tecnologici: la sfera della produzione di conoscenze si
autonomizza rispetto alla produzione industriale, nel senso che il rapporto di
subordinazione della sfera della conoscenza a quella delle merci si inverte. In
modo paradossale, questa autonomizzazione implica una fusione tra le due sfere,
ragion per cui è ormai impossibile separare invenzione e innovazione,
produzione e innovazione, produttore e utilizzatore. L'ipotesi del capitalismo
cognitivo, irriducibile a una nozione di economia della conoscenza, è dunque
l'ipotesi di una autonomizzazione della sfera di produzione di conoscenze, in
quanto sfera di accumulazione capitalista in se e per se. Questo comporta una
rottura fondamentale nei modi di valorizzazione dei capitali rispetto a quelli
propri del capitalismo industriale. La tendenza oggi al passaggio dalla
brevettabilità delle applicazioni alla brevettabilità delle idee, la tendenza
anche ad un allungamento importante della durata dei brevetti da una parte, la
moltiplicazione delle licenze di copyleft d'altra parte, cosi come la
questione cruciale del controllo degli accessi rivelano la portata di questa
rottura (e di in uno spostamento necessario dei luoghi e delle forme dei
conflitti che la istituiscono) poiché il capitalismo cognitivo comporta una
rivoluzione necessaria del regime della proprietà intellettuale e del concetto
di proprietà tout court. L'ipotesi del capitalismo cognitivo che
struttura il mio lavoro è dunque quella di questa rottura storica: il capitale
non si sottomette piu la scienza per renderla adeguata alla sua logica
d'accumulazione, alle sue leggi di valorizzazione, attraverso il sistema della
fabbrica e in un processo di produzione di merci a mezzo di merci. La
valorizzazione del capitale mira immediatamente, e dall'interno stesso, la
sfera di produzione di conoscenze, il processo di produzione di conoscenze a
mezzo di conoscenze. Detto in altri termini, la logica industriale della
ripetizione fondata sul lavoro di riproduzione si esaurisce. Cio non significa
che essa scompaia: la logica industriale, la produzione materiale, non è piu al
cuore della valorizzazione. Non soltanto la relazione fra scienza, tecnica e
industria non segue un cammino lineare, ma, piu fondamentalmente, la relazione
fra accumulazione delle conoscenze e accumulazione del capitale non passa piu
per la mediazione delle merci. Questa inversione rivela anche che le conoscenze
in gioco non sono piu soltanto quelle scientifiche suscettibili di esssere
finalizzate ai bisogni dell'industria e del capitale industriale. Il
capitalismo cognitivo mira a fare di tutte le conoscenze, artistiche,
filosofiche, culturali, linguistiche o scientifiche, una merce.
E
possibile considerare la conoscenza una merce come le altre? E possibile
considerare la conoscenza una merce? Come è possibile pensare la produzione di
conoscenze all'interno dell'economia politica? Come pensare la teoria economica
di fronte allo sviluppo di reti cooperative innovanti - mi riferisco a titolo
d'esempio alla comunità di informatici del freesoft- che operano
all'esterno delle imprese capitaliste e degli Stati -Nazione? Su quali basi è
possibile construire una teoria del capitalismo cognitivo?
In
effetti, la presa in conto della conoscenza nel campo dell'economia politica
pone un doppio problema: quello del valore e quello della distribuzione del
reddito. Che cosa è il valore dal momento in cui si introduce nel campo
dell'economia la conoscenza? Su quali basi fondare la remunerazione nella sfera
della produzione di conoscenze? Puo il concetto di lavoro essere adeguato per
render conto dell'attività creatrice? Altrimenti, se cosi non fosse, come
remunerare l'attività creatrice se questa non puo essere riportata all'interno
del concetto di lavoro, e ancor meno in quello di lavoro diviso e di impiego?
Il
passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo pone dunque dei
problemi nuovi e pone in una nuova prospettiva gli antichi. Senza avere la
pretesa di apportare delle risposte all'insieme complesso e vasto di questioni,
nei paragrafi che seguono mi sforzero semplicemente di cogliere la natura di
questi problemi teorici attraverso una rilettura necessariamente rapida e
parziale del legame tra produzione di conoscenze, accumulazione del capitale, e
dinamica economica, cosi come è stato pensato da Marx e Schumpeter, poi, piu
recentemente, dai teorici della crescita endogena.
Per
piu di due secoli, dal Rinascimento alle Lumieres, il processo
d'accumulazione del capitale e il processo d'accumulazione delle conoscenze
erano relativamente separati nel senso che le due sfere si sviluppavano in
maniera relativamente autonoma l'una rispetto all'altra. Ed è con la rivoluzione industriale e con il passaggio
al capitalismo industriale che la relazione tra queste due sfere si
complessifica. Infatti, la rivoluzione industriale è stata preceduta e attraversata da un processo
d'allargamento e d'intensificazione degli scambi fra "sapienti", al
tempo stesso che il loro "circolo" non cessava di accrescersi. Cosi, come
l'argomenta Gille nella sua "Storia delle tecniche" (1978),
l'evoluzione rapida dei livelli di formazione delle popolazioni, congiuntamente
alla straordinaria diffusione delle conoscenze scientifiche e tecniche costituisce il vero motore del progresso
tecnico. Idea che ritroviamo in Rullani quando afferma che " il
"motore" dell'accumulazione del capitale è stato messo a punto dal
positivismo scientifico che ha raccolto, nel secolo scorso, l'eredità delle
Lumières, e che ha iscritto il sapere nella riproducibilità". E dunque
fuori dalle fabbriche, fuori dal mercato che la potenza dell'attività creatrice
genera durante piu di tre secoli le condizioni dell'avvento del sistema della
fabbrica, dell'industria in quanto sistema di riproduzione su grande scala. Ma
si tratta di una potenza irriducibile al positivismo scientifico: si tratta ben
piu di un processo rivoluzionario di liberazione, di distruzione dei muri di
separazione, di apertura degli accessi al "circolo dei sapienti" a
grandi parti della popolazione, e ben aldilà dei sapienti accreditati nelle
scuole e nelle accademie.
Il
rapporto fra scienza, tecnologia e accumulazione ha trovato uno spazio molto
limitato, e per certi aspetti marginale, in seno al discorso in economia
politica. Questo rapporto si definiva in maniera relativamente lineare, dalla
produzione di conoscenze "pure" alla tecnologia, in quanto conoscenza
applicata e finalizzata, all'industria in quanto luogo di sperimentazione e di
miglioramento delle tecniche di produzione. Le conoscenze "pure"
(scientifiche, filosofiche, culturali, artistiche) essendo un "bene
pubblico", sfuggivano alla logica del mercato (e restavano fuori dal campo
dell'analisi economica) mentre le applicazioni industriali della conoscenza
scientifica erano mantenute nella sfera privata attraverso il sistema dei
brevetti.
L'economia
politica, che si affranca dalla filosofia per costituirsi in quanto disciplina
autonoma alla fine del diciottesimo secolo, si vuole scienza della ricchezza,
e cerca le origini della ricchezza e del
valore all'interno del sistema della fabbrica, a partire dal lavoro che è
specifico a questo sistema: il lavoro riproduttivo, il lavoro diviso,
ricomposto da una cooperazione "passiva", semplice somma, ex-post, di
lavori individuali. Ma prendendo come modello la fabbrica di spilli, l'economia
politica si rinchiuderà già alla sua nascita nella logica della riproduzione
ricercando le fonti della crescita e del valore all'interno della fabbrica,
dunque dal lato della produzione riproduttiva piuttosto che da quello del
cambiamento e dell' invenzione. In Smith l'idea è molto chiara: la ricchezza
delle nazioni riposa sulla divisione del lavoro e sulla taglia dei mercati. La
propensione naturale allo scambio giustificherebbe una specializzazione del lavoro,
ma è la divisione tecnica del lavoro che permetterebbe una crescita piu
importante del prodotto netto, grazie agli incrementi di produttività che rende
possibili. Cosi, una innovazione organizzativa maggiore, la divisione tecnica
del lavoro, sarebbe all'origine del sistema della fabbrica che troverà la sua
apoteosi nelle fabbriche tayloriste -fordiste.
Perché
la divisione del lavoro sarebbe un fattore di incremento della produttività?
Perché, seguendo il ragionamento smithiano, essa permette una riduzione dei
tempi morti (non produttivi del lavoro) e, al tempo stesso , permette un
accrescimento dell'abilità dell'operaio la cui attività è ridotta a semplice
ripetizione di compiti elementari e resa cosi piu performante dal meccanismo
del learning by doing. L'economia è un'economia del tempo, quello della
ripetizione del gesto dell'uomo che potrebbe al limite essere sostituito da un
"bue". In funzione della semplificazione dei compiti, è inoltre
possibile sostituire progressivamente il lavoro umano con quello delle
macchine, cio che permette di accrescere la produttività del lavoro.
Il
fenomeno della crescita è in tal modo identificato dalla combinazione di
macchine specializzate e di lavoro (omogeneo) di riproduzione all'interno della
grande fabbrica, la sola capace di permettere questa organizzazione piu
efficace della produzione. Al tempo dell'invenzione, in quanto creazione
continua del nuovo (Bergson, 1989) l'economia politica preferisce dunque, in
quanto misura del valore, il tempo senza memoria, se non quella corporale del
gesto e di una cooperazione statica iscritta nella divisione tecnica del
lavoro. Su queste basi, creazione di ricchezza - identificata nell'estensione
delle basi materiali di esistenza delle popolazioni - e valorizzazione dei capitali
coincidono. Infatti, con la rivoluzione industriale e l'affermazione del
sistema della fabbrica, il rapporto tra sfera della produzione e dell'
accumulazione di conoscenze e quella dell'accumulazione del capitale, prima
separate, si articola intorno alla tecnologia. L'economia politica partira da
questo punto e rigetterà, in questo modo, fuori dall'economia tutto cio che
rileva della sfera della produzione di conoscenze "non -
finalizzate", tutto cio che puo render conto della mutazione. Cosi facendo,
essa si costituisce immediatamente all'interno della logica della necessità e
del bisogno (la rarità) e iscrive il desiderio e le forze affettive della
differenziazione nel caso (una invenzione nuova venuta da altrove, un progresso
tecnico esogeno).
Ma
dove è stata pensata questa innovazione maggiore che è la divisione del
lavoro? Dove e da chi sono pensate le
macchine? Dove, da chi e come sono prodotti i sistemi di valori che validano e
al tempo stesso incitano i cambiamenti nel sistema delle merci?
In
quanto scienza della combinazione ottima di fattori rari, l'economia
neoclassica - che diviene dominante a
partire dalla metà del diciannovesimo secolo - ha definitivamente rinunciato a
ricercare le origini della ricchezza e ha escluso dal suo campo la conoscenza
che non risponde al criterio economico del mercato, quello della rarità. Cosi,
mantenendo l'attività creatrice, innovante, all'esterno dell'economico, la
scienza economica si è concentrata essenzialmente sull'analisi dei meccanismi
che permettono la riproduzione dei sistemi piuttosto che la loro evoluzione.
Marx, Schumpeter e, recentemente, i teorici della crescita endogena,
costituiscono una rottura maggiore rispetto agli schemi teorici fondamentali e
ci introducono ad una problematica del rapporto tra accumulazione di conoscenze
e accumulazione del capitale. Il mio obiettivo qui è di dimostrare
l'impossibilità di endogeneizzare e i limiti dei tentativi di endogeneizzazione
della produzione di conoscenze all'interno del paradigma industriale ereditato
dalla fabbrica di spilli, l'impossibilità anche di costruire une teoria del
capitalismo cognitivo per semplice trasferimento delle leggi economique del
capitalismo industriale, e questo è vero tanto per le teorie che si ispirano al
pensiero dell'economia standard quanto a quelle che si iscrivono nella
continuità della critica marxiana.
Scienza e capitale nel pensiero di Marx
In Marx, il rapporto tra accumulazione di
conoscenze e accumulazione del capitale è analizzato nel quadro della teoria dello
sfruttamento (e della teoria del valore lavoro) e nella prospettiva
dell'analisi della dinamica storica del capitalismo: subordinandosi la scienza,
la logica del capitale permette uno sviluppo senza precedenti delle forze
produttive. Marx riconosce dunque pienamente e esplicitamente un ruolo storico
determinante al capitale in quanto fattore di progresso: la logica di
accumulazione del capitale porta in se le condizioni per lo sviluppo generale
della scienza e della tecnologia. Ma questa prospettiva è anche quella della
crisi, vista ora in maniera molto piu potente (rispetto alla crisi legata alla
caduta tendenziale del saggio di profitto) come crisi della legge del valore.
E
all'interno di questa doppia prospettiva, quella dello sviluppo delle forze
produttive e quella della crisi della legge del valore lavoro, della crisi del
tempo come misura, che è possibile leggere i tentativi attuali di costruzione
di una teoria del capitalismo cognitivo fondata sulle categorie marxiane e
nella continuité della critica marxiana dell'economia politica. Io tentero
allora di tracciare per grandi linee l'analisi marxiana che ci interessa in
questo contesto, ma perseguendo essenzialmente l'obiettivo di valutare le
possibilità di leggere il presente storico alla luce e mobilizzando le
categorie marxiane.
Per
Marx, il capitalismo ha sviluppato la scienza e non soltanto la scienza come
conoscenza astratta della natura , ma la scienza nel suo prolungamento che è la
tecnologia, che ha permesso una accelerazione eccezionale del progresso
tecnico. La produzione scientifica è subordinata al capitale, nel senso che la
scienza è sottomessa alla logica propria del sistema dal momento in cui il
capitale se ne appropria per renderla adeguata alle sue norme di
valorizzazione. Si tratta dunque di indagare le modalità di questa
appropriazione della scienza.
L'analisi
di Marx è in effetti analisi del processo storico che porta alla separazione
dell'operaio dal mezzo di produzione, all'inversione del rapporto tra
lavoratore e conoscenza, tra lavoratore e scienza, tale che si definiva nelle
tecnologie che hanno preceduto il capitalismo, cioè, in tutte le tecnologie
nelle quali il capitale non era ancora intervenuto dall'interno stesso del
processo di lavoro.1La tecnologia capitalista
consiste dunque in questa separazione / inversione: il lavoro e la conoscenza
sono dunque separati, in altri termini, la scienza è uscita dalla soggettività
di colui che lavora ed è pensata in "luoghi differenti". Nell'analisi
marxiana della tecnologia capitalista, l'endogeneizzazione del progresso tecnico risulta dunque dalla
natura specifica del capitalismo in quanto forma sociale di organizzazione
della produzione e in quanto sistema istituzionale dei diritti di proprietà.
Ma
se è vero che il capitale ha inventato una tecnologia specifica, in quanto
conoscenza applicata alla produzione e mirante, attraverso la separazione /
inversione di cui è questione qui, una intensificazione dell'accumulazione
capitalista, e se è anche vero che ha subordinato ai suoi imperativi di
valorizzazione la produzione di conoscenze scientifiche, la sfera della scienza
resta esterna alla fabbrica e al capitale, cosi come non è piu nella coscienza
del lavoratore. In questa fase del capitalismo che Marx definisce della sussunzione
reale, il capitale controlla direttamente il processo di lavoro nella
"produzione di merci a mezzo di merci" ma non puo che subordinare
dall'esterno, senza pertanto sussumere realmente potremmo dire, la
"produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza", il "processo
di lavoro" nella produzione di conoscenze, se si puo ancora mantenere il
concetto di lavoro nel caso delle conoscenze. Detto in altri termini, il
capitale non puo valorizzarsi direttamente all'interno della produzione di
conoscenze. La sfera di produzione di conoscenze e la sfera di produzione di
merci restano separate, in questo senso non è possibile affermare che c'è
nell'analisi di Marx "endogeneizzazione della scienza", poiché la
produzione di conoscenze "pure" resta fuori dal campo d'azione
diretta del capitale ben che questo ne possa orientare i contenuti. E,
soprattutto, resta fuori dall'analisi marxiana: la conoscenza è prodotta in
"luoghi differenti" che Marx non analizza dal momento in cui la sua
analisi resta analisi del processo di lavoro nel ciclo della produzione
materiale: non c'è in Marx l'analisi del processo di lavoro nel ciclo della
produzione "immateriale", non è possibile trovare in Marx una teoria
della produzione di conoscenze, esse sono prodotte in "luoghi
differenti" che Marx ha rinunciato a indagare nella misura in cui è
rimasto, con Smith, all'interno della fabbrica e della produzione materiale.
Non è dunque una sorpresa il fatto di rendersi conto che Marx finisce lui
stesso per identificare produzione di ricchezza e valorizzazione del capitale.
A
questo stadio dell'analisi, sembra dunque necessario introdurre una distinzione
tra conoscenze tecniche, conoscenze tecnologiche, conoscenze scientifiche e
conoscenze in generale, includendovi anche i sistemi di valori che producono e
sostengono i sistemi e i modi di produzione. In merito a cio, ricordiamoci che è ben nel corso del
diciannovesimo secolo che si mette a punto il sistema dei diritti sulla
proprietà industriale e intellettuale ( Latournerie, 2001). I brevetti portano
sulle applicazioni, le conoscenze scientifiche restano un bene libero per
tutti, in quanto bene pubblico non possono fare l'oggetto di una appropriazione
privata. Benché la scienza possa essere orientata secondo i bisogni
dell'industria e del capitale industriale, secondo una logica che, utilizzando
la terminologia marxiana, si potrebbe definire, anche se in maniera impropria,
della sussunzione formale della scienza al capitale. Detto in altri termini, la
scienza resta formalmente indipendente. Da una parte, non entra direttamente nel processo produttivo, d'altra
parte resta una sfera autonoma d'accumulazione (di conoscenze) parallela alla
sfera d'accumulazione del capitale. Ma allora , la conoscenza non è un prodotto
del capitale. La conoscenza scientifica e la conoscenza in generale, non sono
né il prodotto del capitale, né del lavoro.
Aldilà
della critica radicale del concetto di lavoro e dell'economia politica di
Smith, l'analisi marxiana si iscrive di fatto all'interno del cammino tracciato
da Adam Smith che fa della fabbrica e
del lavoro diviso il fondamento della produzione di ricchezza e del valore. Non
è dunque possibile pretendere di trovare in Marx una risposta alle questioni
che pone il passaggio al capitalismo cognitivo. Detto in altri termini,
prendendo come punto di partenza il lavoro salariato, il lavoro di riproduzione
di merci, sembra impossibile concepire una teoria della produzione di
conoscenze , se non si intende ridurre questa produzione al solo savoir
faire tecnico detenuto dagli antichi artigiani e alle possibilità di
deviazione creativa del lavoro e delle macchine da parte degli operai.
Ma
noi possiamo prendere l'analisi di Marx da un altro punto di vista per una
lettura del presente: quello della crisi come crisi della legge del valore.
Come lo sottolineava Napoleoni, le pagine che Marx consacra nei Grundrisse al
capitale e allo sviluppo delle forze produttive sono le sole pagine che
presentano, in maniera forte, la prospettiva della fine del modo di produzione
capitalista ma in relazione stretta, questa volta, con la legge del valore. La fine del capitalismo
è vista qui come crisi della legge del valore poiché, con lo sviluppo delle
forze produttive spinto dalla tecnologia capitalista, la creazione di ricchezza
non riposa piu sul tempo di lavoro ma sul livello raggiunto dalla scienza e
dalla tecnologia2 , conseguentemente, il
pluslavoro, lo sfruttamento, non è piu che una base miserabile rispetto a
questa nuova base del valore - la scienza - che è stata creata dallo sviluppo stesso
della grande industria. E dunque il capitale, la sua logica d'accumulazione,
che spinge, come lo abbiamo visto prima, il processo d'accumulazione delle
conoscenze e fa che il lavoro non è piu la fonte del valore e il tempo di
lavoro cessa di esserne la misura. Conseguentemente, il valore di scambio cessa
di essere la misura del valore d'uso. La fine del modo di produzione
capitaliste è dunque legato alle condizioni stesse del suo sviluppo ed è la
crisi del valore che rivela l'affermazione del General Intellect "Lo
sviluppo del capitale fisso mostra in quale misura il sapere sociale generale,
la conoscenza, si è trasformato in forza produttiva immediata, e quindi fino a
che punto le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate
sotto il controllo dell'intelligenza in generale e rimodellate in accordo con
essa" (ib.:719).
Queste
pagine che sembrano talmente illuminare la lettura del presente e che
potrebbero essere l'introduzione ad un buon numero di lavori sull'economia
fondata sulla conoscenza suscitano ciononostante due interrogativi maggiori. Un
primo, e accettando completamente l'analisi di Marx e seguendo cio che lui
stesso suggerisce, cioè la necessità, a partire da questo stadio, di pensare
altrimenti la teoria del valore: la ricchezza non si fonda piu sul tempo di
lavoro ma sul tempo libero della creazione, la legge del valore non funziona
piu, ma allora su quali basi si puo costruire una nuova legge del valore? Detto
in altri termini, di fronte all'emergenza della conoscenza, la teoria del
valore marxiana non tiene piu. Ma questo non vuol dire che il capitalismo sia
arrivato alla sua fine. Conseguentemente, non si puo pretendere di trovare in
queste pagine i fondamenti per una teoria del capitalismo cognitivo. Questa
deve essere costruita e cio a partire ben probabilmente e giustamente dai
"luoghi differenti" di cui Marx non ci parla. Detto ancora in altri
termini, anche accettando la prospettiva analitica di Marx si è ben obbligati
di pensare altrimenti , e di pensare a partire della conoscenza e del ciclo
produttivo della produzione immateriale. Se D'Auria ( 1998) ha ben rilevato la
sfida cogliendo il nuovo nella natura della relazione tra accumulazione del
capitale e accumulazione delle conoscenze, la sua analisi lascia il lettore
perplesso e solleva molte questioni. La sua ipotesi è che sia possibile
trasferire l'analisi marxiana del modo di produzione (della produzione
materiale) alla produzione immateriale. Sarebbe dunque possibile applicare le
categorie marxiane della separazione / inversione e dunque del lavoro morto e
del lavoro vivo alla conoscenza. Il suo schema analitico si fonda inoltre sulla
separazione fra produzione e consumo (di conoscenze), il consumo essendo
escluso dal campo di investigazione. Ma nel caso delle conoscenze il consumo
non è che una metafora poiché il "consumo" non è
distruttivo (Rullani, 2000), e sarebbe piu opportuno di parlare di
circolazione. Ma allora, nel caso delle conoscenze, la circolazione, lungi dal
costituire un momento separato, è parte integrante del processo produttivo come
hanno potuto dimostrarlo i lavori della corrente evoluzionista e, per altri
aspetti, i lavori di Latour. Possiamo allora construire una teoria della
produzione di conoscenze sulla base di questo artificio che separa
analiticamente produzione e consumo, mentre che, giustamente, la natura
cumulativa del processo riposa nella circolazione? Ma ancora, possiamo
assimilare il lavoro morto alla conoscenza codificata come lo fa D' Auria?
Possiamo, nel caso della conoscenza, pensare la separazione, l'alienazione del
soggetto produttore dalla sua produzione cognitiva e assimilare la
codificazione al lavoro morto? In Marx,
l'analisi del modo di produzione è imprescindibile dal regime della proprietà
dei mezzi di produzione. Nel campo della conoscenza il principio della
proprietà ha costituito da sempre un rompicapo: il problema è legato tanto
all'inalienabilità reale della proprietà del soggetto produttore che ai diritti
del suo pubblico. In altri termini, non è possibile operare questo
"tranfert", come lo fa D' Auria, senza ridurre la conoscenza a
"una merce come le altre".
Un
secondo campo di interrogazioni comporta una rottura piu radicale: l'analisi
marxiana dello sviluppo delle forze produttive è legata in maniera irriducibile,
come già sottolineato, alla teoria del valore lavoro, ma la crisi della legge
del valore non significa fine del modo di produzione capitalista. Questa
costatazione non deve indurci a ripensare piu globalmente il valore e
all'interno stesso della relazione tra accumulazione di conoscenze e
accumulazione del capitale, tale che si è costituita storicamente? Non deve
indurci, in altri termini, a ripensare il valore e il capitale proprio nella
loro relazione alla produzione di conoscenza e all'attività creatrice per
ritrovarne il motore della storia?
Della separazione tra invenzione e innovazione alla
figura del genio in Schumpeter
Il grande apporto di Schumpeter ha consistito a mettere
in avanti l'innovazione come sola forza del cambiamento. Aldilà della
conoscenza, sono la creatività, le forze dell'invenzione e dell'innovazione, le
sole e vere fonti del valore, le forze del cambiamento. Questa creatività non
puo venire che da un "di fuori" della sfera della riproduzione, da
una volontà di differenziazione, da una fuga dall'equilibrio e dalla
ripetizione all'identica.
Come
in Marx, e benché con una argomentazione differente, Schumpeter
attribuisce un ruolo specifico e
"progressista " al capitalismo, in quanto solo sistema capace di
stimolare una dinamica ben particolare delle forze dell'invenzione e
dell'innovazione. Il capitalismo è concepito come un processo evolutivo che non
puo mai essere stazionario e che è segnato da una dinamica che Schumpeter
definisce di distruzione - creatrice. "Infatti - afferma -
l'impulso fondamentale che mette e mantiene in movimento la macchina
capitalista è impresso dai nuovi oggetti di consumo, i nuovi metodi di
produzione e di trasporto, i nuovi mercati, i nuovi tipi d'organizzazione
industriale tutti elementi creati dall'iniziativa capitalista" (1947,
edizione francese 1990: 116).
Il
legame causale tra sistema capitalista e progresso tecnico è chiaramente
esplicitata nei due passaggi che riassumono, per certi aspetti, il suo
pensiero: " E dunque completamente falso - e anche completamente anti
-marxista- di dire , come lo fanno gli eecoonomisti, che l'iniziativa
capitalista e il progresso tecnico sono stati due fattori distinti dello
sviluppo della produzione; infatti, si tratta essenzialmente di una sola e
unica entità, o ancora, se si preferisce, il primo è stata la forza propulsiva
del secondo" (1947, edizione francese 1990: 152). Qualche pagina dopo
si puo leggere ancora: "Il sistema capitalista fornisce la volontà
creatrice e i mezzi materiali […] il razionalismo capitalista ha fornito le
abitudini dello spirito grazie alle quali sono stati sviluppati i metodi
applicati…" (1947, edizione francese 1990: 175). L'attività creatrice,
l'innovazione, la produzione di nuove conoscenze, ma anche il pensiero
razionale non sono una novità della storia, ma è il capitalismo che da un
impulso nuovo: " Lo sviluppo del pensiero razionale ha, ben inteso,
preceduto la nascita del capitalismo di qualche migliaio di anni: il
capitalismo non ha fatto altro di piu che di imprimere a questo processo un
impulso nuovo e un orientamento particolare" (1947, edizione francese
1990: 200) poiché, come possiamo leggerlo nelle pagine che precedono, "il capitalismo ascendente, non
soltanto ha ispirato l'attitudine mentale della scienza moderna, […] ma ancora,
ha creato dei realizzatori e dei mezzi di realizzazione. Infrangendo il quadro
feodale e alterando la pace intellettuale del
maniero e del villaggio (stante che anche in un convento c'è sempre
largamente stata materia a discussione e a contese) e anche, segnatamente,
aprendo uno spazio sociale a una nuova classe che si appoggiava sulle sue
performance individuali realizzate sul terreno economico, il capitalismo ha
attirato su questo terreno le volontà forti e gli spiriti vigorosi"
(1947, edizione francese 1990: 171).
Non
sono dunque il capitalismo industriale e le sue fabbriche, e ancor meno il
lavoro diviso, la forza del cambiamento, la fonte del valore, ma ben le "
volontà forti, gli spiriti vigorosi" liberati dai vincoli e dalle barriere
proprie del sistema feodale. Nell'analisi di Schumpeter, questi spiriti sono
quelli che racchiude la figura chiave, quella dell'imprenditore, prodotto della
borghesia.
Infatti,
dopo aver distinto invenzione (un'azione esterna al campo economico) e
innovazione (creazione di una nuova funzione di produzione), Schumpeter
definisce "atto imprenditoriale" l'introduzione nel sistema economico
dell'innovazione, e "imprenditore" colui che innova." Il
ruolo dell'imprenditore consiste a riformare o a rivoluzionare le abitudini
della produzione sfruttando una invenzione o, piu generalmente, una possibilità
tecnica inedita…Questa funzione non consiste essenzialmente a inventare un
oggetto o a creare delle condizioni sfruttate dall'impresa, ma ben a parvenire
a delle realizzazioni" (1947, edizione francese 1990: 180/181).
Cosi,
l'atto propriamente creativo, l'invenzione, è considerato da Schumpeter come
esterno al campo d'investigazione dell'economia. Allo stesso modo,
l'imprenditore schumpeteriano, irriducibile al capitalista o al manager, è una
figura esterna all'economico. L'economico comincia con l'innovazione, in quanto
atto d'applicazione delle invenzioni alla produzione industriale.
Seguendo
l'analisi di Schumpeter, l'imprenditore e l'impresa non esistono nello stato
stazionario nel quale la produzione è semplice produzione all'identica,
riproduzione abitudinaria. Ma la concorrenza statica, l'equilibrio, non è
secondo Schumpeter che uno stato teorico. La vera concorrenza non puo essere
che dinamica e non concerne che le imprese innovanti. L'innovazione permette di
generare una differenza al livello microeconomico; la sua diffusione per
imitazione permette un progresso tecnico al livello macroeconomico.
La
figura dell'imprenditore / innovatore è sacralizzata come "genio".
L'impresa privata (istituzione che concretizza il sistema capitalista) diviene
il luogo centrale e fondamentale
dell'innovazione, dunque della produzione di ricchezza, e della dinamica del
sistema. Ma il dentro / fuori si confondono qui nella misura in cui per far
scattare un processo dinamico è sempre necessario un "di fuori"
dell'economico che non comincia che con l'innovazione e l'impresa che ne è il
luogo centrale. In effetti, Schumpeter considera che la figura
dell'"imprenditore - innovatore" è destinata a scomparire con
l'affermazione della grande impresa. "L'unità industriale gigante
perfettamente burocratizzata non elimina soltanto, espropriandone i possessori,
le imprese di piccole o medie dimensioni, ma infin dei conti, elimina
ugualmente l'imprenditore"(1947, edizione francese 1990: 184). Alla
figura dell'imprenditore - innovatore si sostituisce allora l'equipe di Ricerca
e Sviluppo della grande impresa. Solo la grande impresa puo disporre dei mezzi
finanziari per sostenere gli sforzi di innovazione e puo contare sulle economie
di scala. Il suo vantaggio economico riposa sui rendimenti crescenti nella
produzione d'innovazione ma, al tempo stesso, la sua affermazione implica la
scomparsa delle forze del cambiamento: l'imprenditore e la borghesia di cui
l'imprenditore è il prodotto e l'espressione stessa della sua esistenza. E
questa una delle argomentazioni piu forti che giustificano l'affermazione di
Schumpeter "No, non credo che lo possa" in risposta alla
domanda "Il capitalismo puo sopravvivere?" (1947, edizione
francese 1990: 89). Cio che scompare con la grande impresa è un "di
fuori" che solo puo essere potenza creatrice. Si puo allora avanzare l'ipotesi,
partendo da Schumpeter, ma andando oltre Schumpeter, che è impossibile
imprigionare all'interno dell'impresa - e dell'economico- le forze
dell'invenzione senza distruggerle. Ma il capitalismo ha sopravvissuto malgrado
i grandi imperi industriali industriali e finanziari e i grandi monopoli, e
l'innovazione non si è lasciata imprigionare all'interno dell'impresa:
Microsoft non ha potuto impedire la diffusione di pratiche innovanti fuori
dell'impresa, piccola o grande che sia. Come nel caso del freesoft,
l'imprenditore innovatore non è scomparso, è divenuto molteplicità creativa,
forza e potenza della cooperazione libera. E dunque la figura dell'imprenditore
schumpeteriano che pone problema, quella di un genio isolato, prodotto e
espressione della borghesia.
Puo
essere interessante di rivenire allora su un'altra argomentazione di Schumpeter
che conforta la sua ipotesi della fine necessaria del capitalismo: la lettura
che fa della progressiva intellettualizzazione di massa, prodotto della "logica
stessa della sua civilizzazione"(1947, edizione francese 1990: 198).
Questa intellettualità di massa è vista come fonte di una ostilità crescente al
sistema capitalista. Ma anche qui, è la figura dell'intellettuale che pone
problema. Se Schumpeter rigetta una definizione fondata sull'opposizione tra
lavoro intellettuale e lavoro manuale, cosi come rigetta la formula "clan
di scrittovoratori", - rigetto che si puo condividere - egli si vede
obbligato ad accettare a malincuore una accezione del termine intellettuale che
puo essere ricondotta all'idea di una "potenza superiore
intellettuale". E non è giustamente questa potenza superiore intellettuale
, l'allargamento sempre piu grande degli "aventi accesso" al sapere,
una estensione del "banchetto degli intellettuali", che amplifica la
potenza creatrice della moltitudine nelle forme di vita che essa si da? Non è
né nel lavoro, né nel capitale, e neanche nella borghesia imprenditrice che si
possono trovare le forze dell'innovazione e del cambiamento.Ci si puo allora
interrogare nuovamente sulla necessità , per Schumpeter, di fare appello alla
figura del genio. Il genio è una figura che sola puo creare una differenza
(l'invenzione / innovazione), ma allora non puo essere che lui stesso una
differenza che non puo essere analizzata all'interno di uno schema metodologico
individualista o olista, due schemi che convergono su un punto: la negazione
della differenza, lo schiacciamento delle differenze. Due schemi metodologici
che negano la molteplicità. Il ricorso alla figura del genio è dunque una
necessità per poter render conto dell'attività creatrice. Detto in altri
termini, qualsiasi teoria economica è impossibile in assenza di una teoria
della molteplicità e della diversità. In fine, il fatto che Schumpeter veda la
figura del genio come un prodotto della borghesia poco importa. Il punto che mi
sembra veramente essenziale è il fatto
che, riconoscendo nell'innovazione la sola fonte del valore, Schumpeter è
portato a uscire dagli schemi metodologici sui quali si è fondata tutta
l'economia politica e pone il problema di una teoria della produzione creatrice
che non puo aver luogo che fuori dalla fabbrica e dalla sua logica
omogeneizzante.
La teoria neoclassica della crescita: dal residuo
non spiegato ai tentativi di endogenizzazione
Come già sottolineato precedentemente, per quanto
possa apparire strano, l'economia politica ha abbandonato per circa un secolo -
dalla metà del diciannovesimo secolo e fino agli anni 1950 - ogni volontà di
spiegare l'evoluzione e la crescita , a parte chiaramente, i due apporti
maggiori che sono stati trattati qui, quello di Marx e quello di Schumpeter.
L'economia politica è infatti divenuta scienza della combinazione ottima di
fattori rari, scienza delle scelte di massimizzazione. Ma ancora, quando
l'economia affronta in maniera esplicita i problemi della crescita, lo fa
all'interno di una teoria dell'equilibrio: non si tratta di spiegare i fattori
della crescita ma le condizioni per le quali l'impatto di questi fattori possa
essere compatibile con una crescita equilibrata. Il modello del progresso
tecnico di Kaldor costituisce in questo senso una eccezione nella misura in cui
introduce una dimensione endogena: la produttività dei fattori è una funzione
del livello di accumulazione. L'analisi di Kaldor è stata recuperata con un
certo entusiasmo e sviluppata secondo differenti assi combinandola anche
all'analisi schumpeteriana dell'evoluzione. Ma, da una parte, come lo
dimostrano Boyer e Schmeder (1990) il modello kaldoriano è iscritto nella logica
smithiana che fa della fabbrica il luogo, e del capitale l'attore, del
progresso tecnico (dal momento in cui la sua funzione è di dividere per poi
ricomporre dopo, attraverso una cooperazione passiva, il lavoro diviso).
D'altra parte, l'analisi di Kaldor non è contraddittoria con quella di
Schumpeter? Gli apporti di Schumpeter mostrano, in qualche modo,
l'impossibilità di trovare all'interno dell'industria e dell'impresa (dal lato
del lavoro, come del capitale), una spiegazione delle forze dell'innovazione:
esiste sempre e necessariamente un "di fuori" che non è prodotto
dalla logica della fabbrica, delle imprese che la gestiscono. Il processo di
produzione di merci non si confonde con il processo di produzione di
conoscenze, anche se possono esistere delle interconnessioni fondamentali tra
sfera della scienza, sfera della tecnica e sfera del mercato.
In questo senso, mi sembra essere molto piu
interessante l'apporto di Solow. Solow ci dice due cose:
-
in assenza di un
elemento esogeno (il progresso tecnico), la crescita non puo essere che un
fenomeno temporaneo. Questo sulla base delle ipotesi di decrescenza della
produttività marginale dei fattori capitale e lavoro, cioè della produttività
del lavoro come lavoro riproduttivo, e del capitale come insieme di macchine.
L'ipotesi di decrescenza delle produttività marginali essendo combinata con l'
ipotesi di rarità dei fattori. La critica del modello di Solow è stata portata
sul piano formale, cosi, affermano Amable e Guellec " Il meccanismo che
rende possibile l'esistenza di un equilibrio concorrenziale - la decrescenza
delle produttività marginali dei fattori - è anche quello che inibisce la
crescita". Ma al fondo, che ci dice il modello di Solow? Non esiste
all'interno del sistema economico (tale quale lo si è pensato e delimitato) la
possibilità di spiegare in maniera endogena un fenomeno tanto fondamentale
quanto la crescita!
-
-
Il capitale e il
lavoro - i cui incrementi di
produttività sarebbero spiegati da un progresso tecnico esogeno incorporato nei
fattori - non spiegano la totalità della crescita: esiste un residuo
significativo non spiegato, una forza che non è incorporata ( e incorporabile)
né nel capitale, né nel lavoro. Non richiamero qui il dibattito su questo
residuo e i risultati delle analisi
econometriche, per una sintesi rinvio il lettore alla lettura di Abraham Frois
(1995: 156 -168) , e non ritengo di questo dibattito che due questioni:
l'apparizione di questo residuo deve essere attribuita, come lo fanno Jorgenson
e Griliches a degli errori nella valutazione dei prezzi e del tasso di utilizzo
delle capacità produttive o piuttosto al "progresso delle conoscenze"
come lo fa Denison e che non deve essere assimilato ad un altro fattore anche
importante che è la scolarizzazione di massa e il prolungamento della
scolarità? Questo residuo è una misura del progresso tecnico, o piuttosto la
misura della "nostra ignoranza"? Della nostra ignoranza, aggiungerei,
del dove comincia l'economico e del "da dove viene il valore"?
-
La
risposta dell'economia politica a queste questioni è andata piuttosto verso la
volontà di internalizzare tutto senza pertanto interrogarsi sul "progresso
generalizzato delle conoscenze": è l'inizio dei tentativi di
endogeneizzazione del progresso tecnico, ma una endogenizzazione all'interno di
una economia tale quale è stata pensata
da Adam Smith in poi , della fabbrica, del suo lavoro diviso, della produzione
materiale, della produzione di mercato.
Attraverso
un saggio dosaggio degli apporti di Marshall (ricordiamoci che le esternalità
marshalliane ci rivelano due cose : il ruolo della relazione sociale e la
scienza come sfera extra - economica che influenza l'economico e le sue
possibilità di evoluzione), ma anche di Schumpeter, di Kaldor e di Arrow, e
restando sul cammino tracciato da Smith, i modelli di crescita endogena ci
offrono una visione nuova del modello di Solow che si vuole adeguata a render
conto della dinamica della crescita. Pero, questi modelli, aldilà delle loro
differenze fondamentali, costituiscono tutti degli schemi della crescita in una
economia dominata dal capitalismo industriale, e la sua logica, quella della
riproduzione.
Detto
in altri termini, la scienza, il sapere, il "progresso generale delle
conoscenze" sono sempre pensati rispetto alla loro finalizzazione
industriale, e ridotti a sapere scientifico "adeguato" alla
valorizzazione del capitale nella produzione materiale. A titolo d'esempio, e
per tentare di spiegare meglio il mio punto di vista critico rispetto a questi
approcci, faro riferimento al modello di Romer del 1990. Seguendo una logica
che si vuole schumpeteriana, il modello è costruito sulla base dell'idea che
l'innovazione è il motore della crescita, della uscita dallo stato stazionario.
L'innovazione è il prodotto di una attività specifica, quella di R&S, che
le imprese realizzano se redditizia, cioè se genera un monopolio temporaneo che
assicura un "sovra -profitto". Ed è la ragione per cui l'intervento
dello Stato è invocato: deve assicurare un sistema di brevetti e garantirne il
rispetto. L'economia è dunque concepita come l'insieme di tre sfere legate da
una relazione lineare che va dalla conoscenza
alla tecnologia, alla produzione materiale di beni finali. Sono dunque presi
in conto tre settori, quello della ricerca, quello dei beni intermedi, quello
dei beni finali e quattro fattori di produzione: il capitale fisico, il lavoro
non qualificato, il capitale umano e la tecnologia. Il settore della ricerca
non impiega che del capitale umano ed è un settore a rendimenti crescenti
dinamici poiché la conoscenza è considerata un bene "non rivale",
cioè, come lo aveva già sottolineato Arrow, il suo utilizzo da parte di un
individuo non esclude il godimento da parte degli altri individui, tra l'altro,
il processo di produzione delle conoscenze è cumulativo (come è stato messo in
evidenza anche da Kaldor). Ma, al tempo stesso, il sistema dei brevetti
interviene per "privatizzare" questo bene pubblico che è la
conoscenza, impedire dunque che altri possano averne l'uso. Il settore della
R&S vende dunque il suo prodotto, la conoscenza, sotto forma di brevetti al
settore dei beni intermedi e questo al fine di accrescere la produttività nel
settore dei beni finali. Ma le conoscenze prodotte sono anche utilizzate
all'interno del settore della R&S per accrescerne la produttività (e questo
a titolo gratuito!). Il settore dei beni intermedi è anche un settore a
rendimenti crescenti in funzione del costo fisso che rappresenta l'acquisto di
brevetti. Questo legittima una posizione di monopolio. Per contro, nel settore
dei beni finali, che utilizza del lavoro non qualificato, del capitale umano e
dei beni intermedi, i rendimenti sono costanti ma un aumento dell'utilizzo dei
beni intermedi permette una crescita della produzione. Cio non toglie, i
rendimenti di scala essendo costanti, il settore è concorrenziale e la
remunerazione dei fattori è mantenuta sul principio della produttività
marginale.
Aldilà delle numerose critiche alle quali sono stati sottoposti i modelli di
crescita endogena en generale, e il modello di Romer in particolare, cio che ci
interessa qui supera le diatribe formali. E vero che in questi modelli appare
una volontà di spiegare il legame tra produzione di conoscenze e crescita, ma
ancora:
-
possiamo ritenere
une idea di innovazione riducibile a una attività (volontaria) di R&S? Non
si tratta di un forte riduzionismo rispetto al concetto di innovazione di
Schumpeter? Possiamo ritenere che l'innovazione che fa muovere il mondo puo
essere riportata a quella che aumenta la produzione di beni materiali (finali)?
-
-
Possiamo mantenere
lo schema lineare che va dalla ricerca al mercato per leggere, se non il
capitalismo cognitivo, piu semplicemente un "regime di innovazione
permanente"?
-
-
Puo il concetto di
capitale umano tradurre la figura del genio di Schumpeter? Non si tratterebbe
di una maniera per riprodurre altrimenti l'idea del lavoro diviso, del lavoro
intellettuale e del lavoro manuale? Una maniera anche di legittimare le
gerarchie sociali del sapere?
-
-
Se nei settori
concorrenziali del sistema (quelli che producono beni finali) il valore
continua ad essere determinato sulla base della congiunzione delle produttività
marginali decrescenti e della rarità, come si determina il valore ( e la
remunerazione dei fattori) nei settori della produzione di conoscenze? Come si
remunera l'attività di produzione di conoscenze? Ma soprattutto, come sono prodotte le conoscenze?
-
Se
i modelli di crescita endogena possono formalmente superare il primo risultato
di Solow, essi non hanno e non avrebbero potuto superare il secondo: resta un
residuo, un "di fuori" che non puo essere che tale all'interno della
teoria economica che continua a pensare che l'economico incomincia - e finisce
- con l'industria, le sue fabbriche e le suue imprese.
Conclusioni
I tentativi di endogeneizzazione del progresso
tecnico costituiscono una operazione molto riduttrice e mistificatrice: si
continua ad identificare valorizzazione capitalista e produzione di merci; al
tempo stesso, i processi di produzione di conoscenze sono analizzati
(implicitamente) trasferendo gli schemi teorici con i quali è stata analizzata
la produzione materiale e lo scambio di merci. Gli approcci marxisti, che hanno
come obiettivo il trasferimento dell'analisi marxiana del modo di produzione al
campo delle conoscenze non sfuggono a questa critica. Cosi come i tentativi di
trovare all'interno della critica marxiana le basi per una lettura del presente
storico.
Come
lo metteva in evidenza Arrow nel 1962, la conoscenza non è un bene come gli
altri riducibile a una merce, non è semplicemente un bene.Numerosi problemi si
pongono dunque quando si tenta di applicare alla conoscenza le leggi di
valorizzazione dei capitali proprie al capitalismo industriale. Infatti,
l'esaurimento della logica della fabbrica di merci lascia apparire la non
-pertinenza delle leggi del valore, tanto qquella del valore-lavoro, quanto
quella del valore -utilità fondata sull'ipotesi di rarità (Corsani, 2001;
Rullani, 2000) poiché esse non sono estensibili alla fabbrica delle idee, alla
produzione creatrice che rigetta per
definizione la riproduzione all'identica , che non risponde ai principi dei
rendimenti decrescenti e della rarità e sono i fondamenti filosofici
dell'economia politica e della sua critica che entrano in crisi di fronte alla
necessità di prendere in conto la conoscenza.
Ma
questa volontà di endogenizzare ci rivela forse qualcosa d'altro: un
cambiamento di natura del rapporto tra accumulazione di conoscenze e accumulazione del capitale. L'ipotesi del
capitalismo cognitivo avanzata in questo testo è giustamente l'ipotesi di
questo cambiamento di natura. Ma questo cambiamento, che non trova all'interno
dell'economia politica gli strumenti concettuali per la sua anlisi, non ci
obbliga a "cambiare modo di esposizione"? E se partissimo dal genio
schumpeteriano, quello emerso dalla distruzione delle antiche caste feodali del
sapere, quello che si afferma oggi in quanto molteplicità, in quanto
moltitudine, cooperazione creatrice come
nel caso delle comunità del freesoft?
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1 "Il pieno sviluppo del capitale ha quindi luogo - o il capitale ha posto il modo di produzione a esso adeguato - solo a partire dal momento in cui il mezzo di lavoro è non soltanto determinato formalmente come capitale fisso, ma è soppresso nella sua forma immediata, e all'interno del processo di produzione il capitale fisso si presenta come macchina di fronte al lavoro ; e l'intero processo di produzione non si presenta comme sussunto sotto l'abilità immediata dell'operaio, ma come applicazione tecnologica della scienza.Dare carattere scientifico alla produzione è quindi la tendenza del capitale, e il lavoro immediato è ridotto a un semplice momento di questo processo".(1976, tomo 1:710)
2 "Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria , la creazione di ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti messi in moto durante il tempo di lavoro, la qule a sua volta -questa loro poderosa efficacia - non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall'applicazione di questa scienza alla produzione" (Grundrisse, tomo 1: 716)